Bartolomeo Mazzotta, archeologo del Parco Archeologico dell’Appia antica – MIBAC, ci accompagna in un interessante viaggio nella fotografia archeologica. Ecco il suo contributo:
La nascita della fotografia archeologica è strettamente legata all’origine della fotografia stessa, come riproduzione oggettiva della realtà. La capacità di riprodurre fedelmente la realtà, infatti, assieme all’immediatezza della riproduzione del soggetto, hanno permesso alla fotografia di affiancare da subito alcune discipline scientifiche tra cui l’archeologia. Nel 1839 J.F.D. Arago, direttore dell’Osservatorio di Parigi, nel presentare all’Accademia delle Scienze di Francia una relazione che illustrava la validità scientifica della dagherrotipia[1], disse che il nuovo strumento avrebbe permesso di documentare in poco tempo i milioni di geroglifici che ricoprivano i templi egiziani, operazione che altrimenti avrebbe comportato l’utilizzo di centinaia di disegnatori impiegati per oltre venti anni. La nuova tecnica di riproduzione mostrò, quindi, immediatamente la possibilità di legarsi all’archeologia: già nel novembre del 1839, infatti, i pittori parigini H. Vernet e F. Goupil-Fesquet, durante un viaggio in Egitto, riuscirono col dagherrotipo a riprodurre diverse immagini tra cui alcune vedute delle piramidi[2]. Il legame fotografia-archeologia si accrebbe con l’introduzione della tecnica della calotipia, presentata sempre nel 1839 e brevettata nel 1841 da W.H. Fox Talbot, che, grazie al negativo su carta, permetteva lavori più rapidi ed economici e, soprattutto, la possibilità di riprodurre più copie dell’originale.
L’opportunità di fissare, in pochi minuti e con molti particolari, immagini di un paesaggio, di un luogo, di un monumento fece del mezzo fotografico lo strumento ideale per ricercatori e viaggiatori. Nacquero così i libri fotografici di carattere archeologico-paesaggistico, primo fra questi l’edizione di M. du Camp che assieme a G. Flaubert viaggiò tra il 1849 e il 1851 lungo il Nilo e il bacino del Mediterraneo[3], a cui seguì nel 1854 il primo vero e proprio libro di fotografia archeologica a cura di J.B. Greene, anch’esso dedicato ai monumenti del Nilo[4]. La prima documentazione fotografica al servizio esplicito dell’archeologia fu rappresentata, invece, dai due volumi sui monumenti di Gerusalemme[5] editi nel 1856 da A. Salzmann; l’Accademia francese di Belle Arti aveva chiesto, infatti, al fotografo di comprovare, attraverso le immagini fotografiche, l’autenticità degli schizzi di alcuni monumenti redatti dall’archeologo L. Coignard.
Verso la metà degli anni cinquanta del XIX secolo l’introduzione del collodio e della carta albuminata diedero una svolta decisiva all’affermazione della fotografia, permettendo di ottenere immagini di migliore qualità rispetto a quanto avveniva in precedenza. Verso il 1880 la fotografia fece un ulteriore passo in avanti grazie all’introduzione di un nuovo materiale da ripresa: la lastra di gelatina-bromuro d’argento, che può essere considerata come la diretta antenata della pellicola fotografica. Il rapido sviluppo tecnologico della fotografia, avvenuto in quegli anni, le permise di superare nettamente le altre tecniche di documentazione fino ad allora in uso, quali soprattutto lo schizzo a china e il dipinto. Significativa in proposito è la testimonianza del reverendo A.A. Isaacs che nel 1857 dalla Palestina, fino ad allora nota attraverso i disegni dell’esploratore francese Felix de Sauley, scrisse “Noi poniamo continuamente attenzione a osservare i luoghi che visitiamo, comparandoli con le note e i riferimenti di Mr. De Sauley, riscontrando spesso quanto la matita possa essere traditrice e ingannevole, mentre un fac-simile del luogo possa essere realizzato con l’aiuto della fotografia”.
La funzione storico-documentaria della fotografia archeologica può essere riconosciuta in due precise categorie iconografiche: le fotografie turistiche realizzate come mezzo di suggestione visiva e quelle eseguite come pura documentazione scientifica. Poiché l’attività di scavo archeologico è un’azione distruttiva, appare indispensabile documentarla in modo accurato; il mezzo fotografico rappresenta, infatti, uno strumento d’indagine, documentazione, restauro, analisi ed è molto utile pertanto ai fini della tutela archeologica. Per fotografie turistiche, invece, si intendono le immagini realizzate a favore di quel pubblico di viaggiatori che si muoveva in Italia tra la fine dell’Ottocento e gli anni trenta del Novecento e che, grazie allo strumento fotografico, avevano la possibilità di documentare le proprie esperienze, i luoghi e i monumenti incontrati. Molte spedizioni fotografiche ottocentesche, più che essere mosse da un preciso carattere scientifico, avevano il fine di combinare il viaggio al profitto; si producevano immagini che andavano a soddisfare la grande richiesta europea di conoscenza, la curiosità per i monumenti dell’antichità, il gusto per l’esotico, il collezionismo. I monumenti venivano, quindi, ripresi con l’intento di creare un repertorio di vedute, spesso a prescindere da un’indagine scientifica e conoscitiva. La fotografia di tipo turistico è comunque utile agli studi storici e archeologici in quanto se il soggetto fotografato è un monumento o un luogo antico collocato in un contesto mutato rispetto all’osservatore moderno, l’immagine in sé acquista una valenza storico-documentaria, è ricordo, testimonianza e quindi fonte e documento.
Per soddisfare le esigenze dei viaggiatori e dei collezionisti nacquero le prime ditte specializzate in riproduzioni fotografiche di monumenti antichi, di opere d’arte e di luoghi, che costituirono presto propri archivi e pubblicarono cataloghi: fra i primi in Italia la ditta dei Fratelli Alinari fondata a Firenze nel 1854 (primo laboratorio nel 1852), ma anche le ditte Anderson (1853), D’Alessandri (1856) e Brogi (1860). Accanto agli archivi nati per iniziativa privata e con finalità commerciale, vennero alla luce quelli pubblici come il Gabinetto Fotografico Nazionale oggi parte dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, l’archivio dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, quello della Società Geografica Italiana e gli archivi delle istituzioni straniere in Italia come The British School at Rome, l’Istituto Archeologico Germanico e l’American Academy in Rome.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo il maggior contributo alla creazione di archivi fotografici di archeologia si deve a tre archeologi quali gli inglesi John Henry Parker e Thomas Ashby e la statunitense Esther Boise Van Deman, per i quali Roma e la campagna romana hanno esercitato un fascino particolare. Parker (1806-1884), convinto che solo la fotografia potesse fornire una documentazione obiettiva, nel 1866 intraprese, con la collaborazione di vari fotografi, un progetto di riproduzione dei monumenti di Roma e della sua campagna, scattando e facendo scattare foto tecnico-scientifiche con l’ausilio di paline metriche o con la presenza di persone vestite signorilmente (fig. 1). La Van Deman (1862-1937), prima donna americana a specializzarsi nel campo dell’archeologia romana e interessata soprattutto alla tecnica costruttiva, effettuò in compagnia di Ashby lunghe passeggiate sulla via Appia, di cui restano alcune testimonianze fotografiche. Ashby (1874-1931) usò la fotografia come strumento di registrazione ideale del suo lavoro; sviluppò un fortissimo interesse per la via Appia e nel 1913 intraprese un viaggio fotografico lungo la regina viarum da Roma a Taranto, sulla scia di quanto fatto nel 1789 dal disegnatore Carlo Labruzzi, chiamato ad illustrare il viaggio che il Grand Tourist inglese Sir Richard Colt Hoare intraprese nel tentativo di ripercorrere l’itinerario del poeta Orazio, compiuto nel 37 a.C., da Roma a Brindisi.
Questi archeologi-fotografi, tra Ottocento e Novecento, hanno immortalato l’Appia, Museo all’aperto che, rispetto ad oggi, presentava monumenti funerari meglio conservati, bassorilievi, fregi e iscrizioni oggi perdute, era inserito in un contesto ambientale con un deciso carattere agricolo, privo, ad esempio, delle recinzioni delle attuali ville private e di quei pini marittimi che oggi ne caratterizzano fortemente l’aspetto, soprattutto nel tratto tra la città e i Colli Albani[6] (fig. 2). Dell’immagine della via Appia Antica si sono appropriati artisti e architetti del Rinascimento, pittori, incisori e disegnatori del XVII e XVIII secolo, fotografi della seconda metà dell’Ottocento, il cinema degli anni cinquanta e sessanta del XX secolo e i pubblicitari del XXI. L’immagine dell’Appia fa oramai parte di un patrimonio collettivo che ci è stato trasmesso dalla sua storia, dalle vicende che l’hanno interessata e da tutti coloro che, nel passato e nel presente, lo hanno rappresentato.
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[1] L’invenzione di L.J. Mandé Daguerre rappresentò il primo procedimento fotografico per lo sviluppo di immagini, non riproducibili, con il quale si otteneva un’immagine, sia positiva che negativa, in base all’inclinazione di una lastra rame. Da una precedente idea di J.N. Niépce che nel 1826 fissò, su una lastra di stagno ricoperta di bitume, l’immagine del panorama visto dalla finestra della sua casa-laboratorio.
[2] G. Gimon, La photographie ancienne et l’archéologie, in Revue Archéologique, 1980, pp. 134-136.
[3] M. du Camp, Égipte Nubie Palestine et Syries, dessins photographiques, Paris 1852.
[4] J.B. Green, Fouilles exécutées a Thèbes dans l’année 1855. Textes hiéroglyphiques et documents inédits, Paris 1855.
[5] A. Salzmann, Jérusalem étude reproduction photographique des monuments de la Ville Sainte, Paris 1856.
[6] A. Muñoz, Restauri e nuove indagini su alcuni monumenti della via Appia, in BullCom XLI, 1913 pp. 3-21. Tra il 1909 e il 1913 Muñoz, come Ispettore della Regia Sovrintendenza ai Monumenti, compie lavori di restauro sulla via Appia; a pp. 3-4 dice: Preoccupandomi anche del lato pittoresco della storica via, provvidi alla piantagione di 100 pini e di 300 cipressi, disposti non regolarmente a filari, ma a gruppi, specialmente sul lato destro di chi venga da Roma, per non togliere la vista sui monti tuscolani).
Fig. 1.
John Henry Parker, Il V miglio della via Appia Antica: un monumento funerario, del II secolo d.C., a forma di arco quadrifronte imita la porta Trionfale, simbolo dell’apoteosi del defunto, tra 1860-1877, The British School at Rome – Photographic Archive, John Henry Parker Collection, jhp-2342.
Fig. 2.
Thomas Ashby, Il paesaggio agricolo della campagna romana attraversato dalla via Appia con i monumenti funerari dell’VIII miglio (sepolcro a edicola di Q. Veranius e Berretta del Prete); sullo sfondo i Colli Albani. 1904 (?), The British School at Rome – Photographic Archive, Thomas Ashby Collection, ta-VIII.097.
Bibliografia essenziale
AA.VV., Dalla camera oscura alla prima fotografia (a cura di F.M. Cifarelli – F. Colaiacomo), Roma 2017.
E.G. Leanza, Nuove forme di documentazione. La fotografia archeologica, in Cogitata tradere posteris. Figurazione dell’architettura antica nell’Ottocento (a cura di F. Buscemi), Acireale-Roma 2010, pp. 135-145.
AA.VV., Sulla via Appia da Roma a Brindisi. Le fotografie di Thomas Ashby 1891-1925 (a cura di S. Le Pera Buranelli – R. Turchetti), Roma 2003.
AA.VV, Archeologia in posa. Dal Colosseo a Cecilia Metella nell’antica documentazione fotografica. (MiBACT) Ufficio Centrale per i Beni Librari le Istituzioni Culturali e l’Editoria, Biblioteca Vallicelliana, Soprintendenza Archeologica di Roma (Mostra: Biblioteca Vallicelliana, 5 novembre 1998 – 9 gennaio 1999), Milano 1998.
M. Necci, La fotografia Archeologica, Roma 1992.
AA.VV., La fotografia a Roma nel secolo XIX. La veduta, il ritratto, l’archeologia, (atti del Convegno – Roma, Palazzo Braschi, 12-13 dicembre 1989), Roma 1991.
AA.VV., Fotografia Archeologica 1865-1914 (a cura di K. Bull – S. Einaudi), (Mostra: American Academy in Rome, Roma, 5-26 febbraio 1979), Roma 1978.